Ricorso della Regione Veneto, in persona del vice presidente pro tempore della giunta regionale - in assenza del presidente - autorizzato mediante deliberazione della giunta stessa 7 agosto 2006, n. 2555, rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine del presente atto, dagli avv. prof. Mario Bertolissi di Padova, Romano Morra di Venezia e Andrea Manzi di Roma, presso quest'ultimo domiciliata in Roma, via F. Confalonieri n. 5; Contro il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12, per la declaratoria di illegittimita' costituzionale, per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 Cost., degli artt. 2, commi 1 e 3; 3, 5, comma 2; 6, 12, comma 1; 13, 22, 26, 29, 30, 34, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilascio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, n. 153 del 4 luglio 2006 (Rettifica Gazzetta Ufficiale n. 159 dell'11 luglio 2006). Fatto e diritto 1. - Il decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale» (c.d. decreto Bersani), prevede numerose norme, contenute negli artt. 2, commi 1 e 3; 3, 5, comma 2; 6, 12, comma 1; 13, 22, 26, 29, 30, 34, comma 1, che, ad avviso della Regione Veneto, si pongono in contrasto con la Costituzione, violando l'autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria regionale, nonche' il principio di leale collaborazione. In particolare, molte di queste disposizioni ledono l'autonomia legislativa, amministrativa e organizzativa regionale, non recependo per altro gli orientamenti formulati da codesto ecc.mo Collegio, sotto molteplici profili in ordine: a) alla ricostruzione dei rapporti tra legislazione statale e regionale definiti dal nuovo art. 117 Cost., anche alla luce del principio di leale collaborazione tra Stato e regioni, di cui all'art. 120 Cost., con specifico riferimento alle materie della tutela della concorrenza, delle professioni, del commercio, della programmazione socio-sanitaria e del trasporto pubblico locale; b) all'attuazione e alla cogenza delle disposizioni di cui all'art. 119 Cost., congiuntamente a quelle degli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., con riferimento all'autonomia finanziaria e contabile delle regioni e alla natura di principio delle norme di coordinamento della finanza pubblica. Per meglio illustrare i profili di illegittimita' costituzionale denunciati si procedera' qui di seguito ad un'analisi di ciascuna delle norme impugnate. 2. - L'art. 2, nella volonta' di dettare «Disposizioni urgenti per la tutela della concorrenza nel settore dei servizi professionali», ha previsto, rispettivamente al comma 1 e al comma 3, che «in conformita' al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di liberta' di circolazione delle persone e dei servizi, nonche' al fine di assicurare agli utenti un'effettiva facolta' di scelta nell'esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attivita' libero professionali e intellettuali: a) la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti; b) il divieto, anche parziale, di pubblicizzare i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto e il prezzo delle prestazioni; c) il divieto di fornire all'utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di societa' di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che il medesimo professionista non puo' partecipare a piu' di una societa' e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o piu' professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilita» e che «le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l'adozione di misure a garanzia della qualita' delle prestazioni professionali, entro il 1° gennaio 2007. In caso di mancato adeguamento, a decorrere dalla medesima data le norme in contrasto con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso nulle». Appare evidente che le disposizioni in discorso contengono norme di minuto dettaglio ed autoapplicative, che ledono l'autonomia legislativa regionale. L'art. 117 della Costituzione, al suo terzo comma, annovera tra le materie di legislazione concorrente la disciplina delle «professioni», attribuendo alle regioni la potesta' legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Ora, le norme del «decreto Bersani» sopra riportate non hanno nessuna delle caratteristiche che individuano un principio fondamentale poiche' pongono in essere delle modifiche molto puntuali, oltre che rilevanti, alla disciplina della materia, abolendo la fissazione delle tariffe obbligatorie fisse o minime e numerosi divieti fino ad ora vigenti, quali quello di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi (lett. a) o di pubblicizzare titoli, specializzazioni e servizio offerto (lett. b) e di fornire servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di societa' di persone o associazioni tra professionisti (lett. c). Le abolizioni cosi' previste non necessitano in se' di alcuna norma di dettaglio per darvi attuazione, privando, di conseguenza, le regioni di qualsiasi potere in materia. A nulla varrebbe invocare i principi comunitari di libera concorrenza e di circolazione delle persone e dei servizi, richiamati nel primo comma dell'art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, al fine di superare le censure prospettate e affermare la competenza statale. Come ha avuto modo di osservare codesto ecc.mo Collegio nella sentenza 14 gennaio 2004, n. 14 e come vedremo meglio a breve in altra parte del presente ricorso, una concezione cosi' ampia della competenza attibuita allo Stato in materia di tutela della concorrenza - «che non presenta i caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di una funzione esercitabile sui piu' diversi oggetti» - finirebbe per vanificare lo schema di riparto dell'art. 117 Cost., secondo il quale sono «attribuite alla potesta' legislativa residuale e concorrente delle regioni materia la cui disciplina incide innegabilmente sullo sviluppo economico». In altre parole la tutela della concorrenza non puo' essere utilizzata quale fondamento di legittimazione del potere normativo statale esercitato in modo da non lasciare, irragionevolmente, il minimo spazio non solo per un'ipotetica legislazione ulteriore, ma persino per una normazione secondaria di mera esecuzione. 3. - Analogo richiamo alle disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi viene svolto nell'art. 3 del decreto-legge impugnato, recante «Regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale». Per poter evidenziare i profili di illegittimita' costituzionale delle norme contenute nell'articolo ora citato e' necessario riportare qui di seguito per esteso il testo della disposizione: «Ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettere e) ed m), della Costituzione, le attivita' economiche di distribuzione commerciale, ivi comprese la somministrazione di alimenti e bevande, sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni: a) l'iscrizione a registri abilitanti ovvero possesso di requisiti professionali soggettivi per l'esercizio di attivita' commerciali, fatti salvi quelli riguardanti la tutela della salute igienico-sanitaria degli alimenti; b) il rispetto di distanze minime obbligatorie tra attivita' commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio; c) le limitazioni quantitative all'assorbimento merceologico offerto negli esercizi commerciali; d) il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale; e) la fissazione di divieti generali ad effettuare vendite promozionali, a meno che non siano prescritti dal diritto comunitario; f) l'ottenimento di autorizzazioni preventive e le limitazioni di ordine temporale allo svolgimento di vendite promozionali di prodotti, effettuate all'interno degli esercizi commerciali» (comma 1); «Sono fatte salve le disposizioni che disciplinano le vendite sottocosto e i saldi di fine stagione» (comma 2); «A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari statali di disciplina del settore della distribuzione commerciale incompatibili con le disposizioni di cui al comma 1» (comma 3); «Le regioni e gli enti locali adeguano le proprie disposizioni legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al comma 1 entro il 1° gennaio 2007» (comma 4). La disciplina relativa alla distribuzione commerciale che il legislatore statale ha dettato, ritenendo di far uso delle proprie competenze nelle materie «tutela della concorrenza» e di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», viola l'autonomia legislativa e amministrativa riconosciuta alla regione, ai sensi degli artt. 117 e 118 Cost., in materia di commercio. Giova a questo riguardo ricordare che la disciplina del commercio rientra, ai sensi del comma 4 dell'art. 117 Cost., nella potesta' legislativa piu' ampia delle regioni, non essendo compresa nelle materie elencate nel secondo e terzo comma del medesimo articolo (come codesto ecc.mo Collegio ha precisato, tra l'altro, nella sentenza 13 gennaio 2004, n. 1 e nell'ord. 11 maggio 2006, n. 199). A questo punto pero' si rendono necessarie alcune osservazioni sui rapporti tra la competenza legislativa statale esclusiva in materia di «tutela della concorrenza» e quella regionale in materia di commercio. Tale «materia» (materia-non materia, per usare una significativa espressione utilizzata dalla dottrina), al pari di quella di cui alla lettera m) dello stesso secondo comma dell'art. 117 Cost., rientra tra quelle a cui la maggior parte degli autori, seguiti dalla giurisprudenza costituzionale (a partire dalla sent. 26 giugno 2002, n. 282), attribuisce una portata «trasversale» o «orizzontale», in quanto si intersecano con materie intese in senso tradizionale e che, quindi, fondando un potere legislativo statale determinano interferenze tra potesta' statale e regionale non solo nell'ambito delle materie di competenza, ma anche all'interno delle materie che dovrebbero essere di competenza c.d. residuale delle regioni, ai sensi del comma 4, dell'art. 117 Cost. Senza poter affrontare in questa sede i problemi inerenti all'individuazione dei caratteri distintivi e dei confini tra materie «trasversali» e materie di competenza legislativa concorrente o la questione circa l'attitudine delle prime a costituire un «tipo» di competenza distinto da quelli espressamente indicati dall'art. 117 Cost., giova rilevare come con riferimento alle materie «trasversali» si avverta generalmente il problema di evitare che un'interpretazione lata di queste vanifichi di fatto il sistema di riparto delle competenze tra regioni e Stato a tutto vantaggio di quest'ultimo. Focalizzando l'attenzione sulla «tutela della concorrenza», non vi sono dubbi che si arriverebbe certamente all'assurdo se il rilievo trasversale della competenza statale potesse essere esasperato fino ad avallare un'interpretazione che precluda alle regioni di porre in essere qualsiasi disciplina, in quanto costituzionalmente illegittima, che possa avere un rilievo nei rapporti tra imprese o una ricaduta sul mercato. In dottrina si e' espresso il timore che l'intervento normativo statale, in presenza dei vincoli comunitari in tema di concorrenza, possa risultare «ripetitivo» e «ridondante», ovvero che comprima eccessivamente i margini di autonomia spettanti alle regioni (cfr. R. Caranta, La tutela della concorrenza, le competenze legislative e la difficile applicazione del Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2004, n. 4, 990 s.). Del resto, come si e' gia' ricordato supra, codesta ecc.ma Corte costituzionale, affrontando la questione del rapporto tra le politiche statali di sostegno del mercato e le competenze legislative delle regioni nel nuovo Titolo V della nostra Costituzione, con la sentenza 13 gennaio 2004, n. 14 ha cosi' argomentato: «una volta riconosciuto che la nozione di tutela della concorrenza abbraccia nel loro complesso i rapporti concorrenziali sul mercato e non esclude interventi promozionali dello Stato, si deve tuttavia precisare che una dilatazione massima di tale competenza, che non presenta i caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di una funzione esercitabile sui piu' diversi oggetti, rischierebbe di vanificare lo schema di riparto dell'art. 117 Cost., che vede attribuite alla potesta' legislativa residuale e concorrente delle regioni materie la cui disciplina incide innegabilmente sullo sviluppo economico». Il problema e' stato risolto, come e' noto, facendo riferimento al criterio sistematico che evidenzierebbe la volonta' del legislatore costituzionale del 2001 di unificare in capo allo Stato «strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese»; strumenti che sono espressione di un carattere unitario e che, «interpretati gli uni per mezzo degli altri, risultano tutti finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico». In sintesi, dunque, l'intervento statale si giustifica «per la sua rilevanza macroeconomica», mentre appartengono alla competenza legislativa concorrente o residuale delle regioni gli interventi «sintonizzati sulla realta' produttiva regionale», tali, comunque, da non creare ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose fra le regioni e da non limitare l'esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale. Nel caso di specie un'interpretazione estensiva del carattere «trasversale» della materia-non materia «tutela della concorrenza» potrebbe di fatto cancellare la competenza legislativa esclusiva regionale in materia di commercio. Come e' stato osservato, una lettura della lett. e) del comma 2, dell'art. 117, cosi' ampia da farvi rientrare non solo - come sarebbe corretto - le «regole generali» della concorrenza o quelle disposizioni che siano strettamente funzionali al mantenimento della concorrenza, ma anche la disciplina di tutte le misure regolamentari e amministrative che incidono sull'esercizio di attivita' economiche «limiterebbe eccessivamente la potesta' esclusiva delle regioni, le quali in materie come il commercio non potrebbero, ad esempio occuparsi di autorizzazioni o di orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, in quanto aspetti che hanno riflessi sull'esercizio delle attivita' economiche» (E. Freni, La tutela della concorrenza, in Trattato di Diritto Amministrativo, IV, Milano, 2003, 3688). Per altro, del tutto improprio appare il richiamo, contenuto nel primo comma dell'art. 3, alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, di cui all'art. 117, comma secondo, lett. m), Cost., anch'essa materia trasversale in ordine alla quale valgono le considerazioni sopra svolte sulle letture di tali materie che finiscono per comprimere irragionevolmente gli ambiti di autonomia regionale. Infatti, proprio a questo tipo di interpretazione si dovrebbe accedere se si volessero far rientrare le disposizioni in discorso nell'ambito della individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. 4. - Irrispettosa della competenza regionale in materia di commercio, oltre che in materia di programmazione socio-sanitaria, risulta anche la norma di cui al comma 2, dell'art. 5, del decreto-legge impugnato. La disposizione prevede che la vendita al pubblico dei farmaci da banco o di automedicazione negli esercizi commerciali della cosiddetta grande distribuzione sia consentita durante l'orario di apertura degli stessi e debba essere effettuata nell'ambito di un apposito reparto, con l'assistenza di uno o piu' farmacisti abilitati all'esercizio della professione ed iscritti al relativo ordine. Restano vietati i concorsi, le operazioni a premio e le vendite sotto costo aventi ad oggetto farmaci. Si tratta di una norma di mero dettaglio che non puo' definirsi conforme a Costituzione, ne' facendo rientrare la disciplina in discorso nell'ambito della materia del «commercio», di cui al quarto comma dell'art. 117, ne' in quella della «tutela della salute», di cui al terzo comma del medesimo articolo. A tale proposito si puo' ricordare che nella sentenza n. 87 del 2006 codesto ecc.mo Collegio ha avuto modo di precisare come, pure successivamente all'entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione, la «materia» della organizzazione del servizio farmaceutico vada ricondotta al titolo di competenza concorrente della tutela della salute. Notava peraltro sempre codesto ecc.mo Collegio che «la complessa regolamentazione pubblicistica della attivita' economica di rivendita dei farmaci e' infatti preordinata al fine di assicurare e controllare l'accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute, restando solo marginale, sotto questo profilo, sia il carattere professionale sia l'indubbia natura commerciale dell'attivita' del farmacista». A ben vedere pero' proprio la ratio con cui sono state dettate le norme dell'art. 5 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, costituisce una diversa prospettiva di disciplina della materia rispetto alla precedente legislazione vigente in materia. Nella volonta' del legislatore, che emerge inequivocabilmente dal testo normativo, non si puo' affermare che «il carattere professionale» e «l'indubbia natura commerciale dell'attivita' del farmacista» restino «solo marginali» rispetto «al fine di assicurare e controllare l'accesso dei cittadini ai prodotti medicinali», quando tutta la disciplina viene dettata nell'obiettivo dichiarato di ottenere dei vantaggi per i consumatori in termini di prezzi e di orari di apertura, sfruttando le probabili dinamiche commerciali, piuttosto che attraverso una regolamentazione pubblicistica dell'attivita'. La norma impugnata, sotto questo profilo, non puo' non venire a ledere la competenza legislativa esclusiva che, come si e' visto supra, spetta alle regioni in materia di commercio. Ma analoga lesione dell'autonomia legislativa regionale si puo' riscontrare anche riconducendo la materia nell'ambito della tutela della salute. Infatti, nelle materia di legislazione concorrente spetta allo Stato la sola determinazione dei principi fondamentali, dovendosi lasciare alle regioni la possibilita' di esercitare la potesta' legislativa che a loro e' riconosciuta dall'ultimo periodo del terzo comma, dell'art. 117 Cost., ora citato. Prevedendo l'orario di vendita dei farmaci da banco o di automedicazione, le modalita' di vendita (in apposito reparto con l'assistenza di uno o piu' farmacisti) e divieti specifici per concorsi, operazioni a premio e vendite sotto costo, il comma 2, dell'art. 5 contiene innegabilmente statuizioni al piu' basso grado di astrattezza, che, per il loro carattere di estremo dettaglio, sono insuscettibili di sviluppi normativi ulteriori. Non siamo, quindi, di fronte alla previsione di principi fondamentali della materia, il solo tipo di norma che il legislatore statale e' abilitato a dettare in materia di tutela della salute. 5. - Le norme di cui all'art. 6 e all'art. 12, comma 1, del decreto-legge n. 223 del 2006, recanti, rispettivamente «Deroga al divieto di cumulo di licenze per il servizio di taxi» e «Disposizioni in materia di circolazione dei veicoli e di trasporto comunale e intercomunale», violano la competenza regionale in materia di autotrasporto non di linea e di trasporto pubblico locale, e, di conseguenza, gli artt. 117 e 118 della Costituzione. La prima delle due disposizioni - al fine di assicurare agli utenti del servizio taxi una maggiore offerta, in linea con le esigenze della mobilita' urbana» - ha aggiunto all'art. 8 della legge 15 gennaio 1992, n. 21, dopo il comma 2, un comma 2-bis del seguente tenore: «fatta salva la possibilita' di conferire nuove licenze secondo la vigente programmazione numerica, i comuni possono bandire pubblici concorsi, nonche' concorsi riservati ai titolari di licenza di taxi, in deroga alle disposizioni di cui ai commi 1 e 2, per l'assegnazione a titolo oneroso di licenze eccedenti la vigente programmazione numerica. Nei casi in cui i comuni esercitino la facolta' di cui al primo periodo, i soggetti di cui all'art. 7 assegnatari delle nuove licenze non le possono cedere separatamente dalla licenza originaria. I proventi derivanti dall'assegnazione a titolo oneroso delle nuove licenze sono ripartiti, in misura non superiore all'80 per cento e non inferiore al 60 per cento, tra i titolari di licenza taxi del medesimo comune che mantengano una sola licenza. In ogni caso i titolari di licenza devono esercitare il servizio personalmente, ovvero avvalersi di conducenti iscritti al ruolo di cui all'art. 6, il cui contratto di lavoro subordinato deve essere trasmesso all'amministrazione vigilante entro le 24 ore del giorno precedente il servizio. I comuni possono altresi' rilasciare titoli autorizzatori temporanei, non cedibili, per fronteggiare eventi straordinari». Con il primo comma dell'art. 12 del decreto impugnato si e' stabilito che «fermi restando i principi di universalita', accessibilita' ed adeguatezza dei servizi pubblici di trasporto locale ed al fine di assicurare un assetto maggiormente concorrenziale delle connesse attivita' economiche e di favorire il pieno esercizio del diritto dei cittadini alla mobilita», i comuni possono prevedere «che il trasporto di linea di passeggeri accessibile al pubblico, in ambito comunale e intercomunale, sia svolto, in tutto il territorio o in tratte e per tempi predeterminati, anche dai soggetti in possesso dei necessari requisiti tecnico-professionali, fermi restando la disciplina di cui al comma 2 ed il divieto di disporre finanziamenti in qualsiasi forma a favore dei predetti soggetti. Il comune sede di scalo ferroviario, portuale o aeroportuale e' comunque tenuto a consentire l'accesso allo scalo da parte degli operatori autorizzati ai sensi del presente comma da comuni del bacino servito». Dalla lettura dei testi normativi ora riportati emerge come gli stessi siano costituzionalmente illegittimi in considerazione del fatto che la regione nella materia e' titolare di una competenza legislativa esclusiva, ai sensi del quarto comma dell'art. 117, secondo il quale, come e' noto «spetta alle regioni la potesta' legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». Del resto, si deve ricordare che gia' il d.lgs. n. 422 del 1997 aveva conferito alle regioni ed agli enti locali funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale, a norma dell'art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59. L'impianto legislativo introdotto dal d.lgs. n. 422 del 1997, posto in essere anteriormente alla promulgazione della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, per altro, si era contraddistinto per una valorizzazione del ruolo svolto dalle regioni in questo settore e per una sensibilita' verso il modello concorrenziale elaborato a livello comunitario, pur rinvenendo per il trasporto pubblico locale vincoli meno stringenti. Come codesta ecc.ma Corte ha avuto modo di precisare recentemente, «la materia del trasporto pubblico locale rientra nell'ambito delle competenze residuali delle regioni di cui al quarto comma, dell'art. 117 Cost., come reso evidente anche dal fatto che, ancor prima della riforma del Titolo V della Costituzione, il d.lgs. 19 novembre 1997, n. 422 (Conferimento alle regioni ed agli enti locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale, a norma dell'art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59) aveva ridisciplinato l'intero settore, conferendo alle regioni ed agli enti locali funzioni e compiti relativi a tutti `i servizi pubblici di trasporto di interesse regionale e locale con qualsiasi modalita' effettuati ed in qualsiasi forma affidati' ed escludendo solo i trasporti pubblici di interesse nazionale» (cfr. sent. n. 222 dell'8 giugno 2005). Se questa e' la natura delle competenze regionali in materia, anche con riferimento alle norme di cui all'art. 6 ed al comma 1 dell'art. 12, non varrebbe il semplice richiamo alla necessita' di adottare una disciplina di tutela della concorrenza per giustificare l'intervento del legislatore statale. Questo e' vero soprattutto se si considera che le norme impugnate contengono una disciplina compiuta che non lascia spazio ad una legislazione regionale ulteriore, con cio' dovendosi dubitare che le disposizioni rispettino i parametri della adeguatezza e della proporzionalita'. 6. - A finalita' di tutela della concorrenza si ispira dichiaratamente anche l'art. 13 del decreto-legge impugnato, recante «Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza». Con le norme in esame il legislatore statale ha voluto evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e assicurare la parita' degli operatori, impedendo che soggetti destinatari dei cosiddetti «obblighi di servizio pubblico», solo formalmente privatizzati - in quanto i pubblici poteri esercitano nei loro confronti, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante per ragioni di proprieta', partecipazione finanziaria o in forza di una normativa che la disciplina - possano operare, avvantaggiandosi del regime speciale di cui godono, anche sul libero mercato, producendo alterazioni e distorsioni della concorrenza. Se queste sono le finalita' perseguite dalla disciplina statale rimane da accertare se qeust'ultima rispetti la sfera di autonomia regionale oppure se, facendo valere ragioni di tutela della concorrenza, comprima irragionevolmente l'autonomia legislativa e amministrativa della regione. Leggiamo il testo delle disposizioni: «Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parita' degli operatori, le societa', a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attivita' di tali enti, nonche', nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, ne' in affidamento diretto ne' con gara, e non possono partecipare ad altre societa' o enti» (comma 1); «Le predette societa' sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1» (comma 2); «Al fine di assicurare l'effettivita' delle precedenti disposizioni, le societa' di cui al comma 1 cessano entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto le attivita' non consentite. A tale fine possono cedere le attivita' non consentite a terzi ovvero scorporarle, anche costituendo una separata societa' da collocare sul mercato, secondo le procedure del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, entro ulteriori dodici mesi» (comma 3); «I contratti conclusi in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 sono nulli» (comma 4). Come si puo' comprendere dalla lettura delle disposizioni ora riportate con il decreto impugnato si e' posta in essere una disciplina puntuale che non lascia alcuno spazio alla regione per dettare una normativa che tenga conto delle necessita' locali e nemmeno dei tempi di attuazione dei principi statali secondo criteri di adeguatezza e proporzionalita'. L'art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, accompagna, infatti, la previsione dei limiti all'attivita' esercitabile e all'oggetto sociale delle societa' a capitale interamente pubblico o misto di cui al comma 1 con prescrizioni temporali tassative e con la sanzione della nullita' dei contratti conclusi in violazione delle prescrizioni contenute nei primi due commi. Le norme in esame, dunque, incidono sull'autonomia organizzativa, legislativa e amministrativa della regione e degli enti locali, non risultando proporzionate e adeguate alle espresse esigenze di liberalizzazione del mercato. 7. - L'art. 22 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, contiene disposizioni che stabiliscono la riduzione delle spese di funzionamento per enti ed organismi pubblici non territoriali. Sancisce il primo comma dell'articolo in esame che «gli stanziamenti per l'anno 2006 relativi a spese per consumi intermedi dei bilanci di enti ed organismi pubblici non territoriali, che adottano contabilita' anche finanziaria, individuati ai sensi dell'art. 1, commi 5 e 6, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, con esclusione delle Aziende sanitarie ed ospedaliere, degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, dell'Istituto superiore di sanita', dell'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, dell'Agenzia italiana del farmaco, degli Istituti zooprofilattici sperimentali e delle istituzioni scolastiche, sono ridotti nella misura del 10 per cento, comunque nei limiti delle disponibilita' non impegnate alla data di entrata in vigore del presente decreto. Per gli enti ed organismi pubblici che adottano una contabilita' esclusivamente civilistica, i costi della produzione, individuati all'art. 2425, primo comma, lett. b), nn. 6), 7) e 8), del codice civile, previsti nei rispettivi budget 2006, concernenti i beni di consumo e servizi ed il godimento di beni di terzi, sono ridotti del 10 per cento. Le somme provenienti dalle riduzioni di cui al presente comma sono versate da ciascun ente, entro il mese di ottobre 2006, all'entrata del bilancio dello Stato, con imputazione al capo X, capitolo 2961». Il secondo comma dello stesso art. 22 prevede poi che «per le medesime voci di spesa e di costo indicate al comma 1, per il triennio 2007-2009, le previsioni non potranno superare l'ottanta per cento di quelle iniziali dell'anno 2006, ferma restando quanto previsto dal comma 57, dell'art. 1 della legge 23 dicembre 2004, n. 311. Le somme corrispondenti alla riduzione dei costi e delle spese per effetto del presente comma sono appositamente accantonate per essere versate da ciascun ente, entro il 30 giugno di ciascun anno, all'entrata del bilancio dello Stato, con imputazione al capo X, capitolo 2961. E' fatto divieto alle Amministrazioni vigilanti di approvare i bilanci di enti ed organismi pubblici in cui gli amministratori non abbiano espressamente dichiarato nella relazione sulla gestione di avere ottemperamento alle disposizioni del presente articolo». La difesa della regione del Veneto non ritiene che le disposizioni ora citate siano interpretabili in via estensiva tanto da far rientrare nel loro ambito soggettivo di applicazione gli enti pubblici non territoriali regionali. Se pero' si volesse seguire una lettura cosi' ampia del dettato normativo statale ne dovrebbe discendere necessariamente una violazione da parte del medesimo dettato normativo degli artt. 117 e 119 Cost. Infatti, con le disposizioni in oggetto il decreto-legge impugnato avrebbe posto per le regioni vincoli puntuali ad una singola voce di spesa, eccedendo in tal modo dai limiti della propria competenza in materia di «coordinamento della finanza pubblica», ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost., e violando l'autonomia finanziaria di spesa di cui all'art. 119 Cost. Nel medesimo senso, codesto ecc.mo Collegio in numerose pronunce (ad esempio, nelle sentenze nn. 376 del 2003, 4, 36 e 390 del 2004, 417 e 449 del 2005) ha avuto modo di precisare, dichiarando l'illegittimita' costituzionale di alcune norme statali, che lo Stato puo' legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio - anche se con cio' si determina inevitabilmente una limitazione indiretta dell'autonomia di spesa degli enti - purche' pero' cio' avvenga attraverso una «disciplina di principio» e «per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari». Piu' precisamente, se l'imposizione di vincoli alle politiche di bilancio di regioni ed enti locali vuole rimanere nell'ambito della legittimita' costituzionale, essa dovrebbe avere ad oggetto o l'entita' del disavanzo di parte corrente, oppure, ma solo «in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale», la crescita della spesa corrente. Alla legge statale, pertanto, viene consentito di stabilire unicamente un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia liberta' di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa». La previsione da parte della legge statale di limiti all'entita' di una singola voce di spesa non puo' essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica, in quanto pone un precetto specifico e puntuale sull'entita' della spesa e si risolve percio' «in una indebita invasione», da parte dello Stato, dell'area riservata alle autonomie regionali e locali, alle quali il legislatore nazionale puo' prescrivere criteri ed obiettivi, quali, ad esempio, il contenimento della spesa pubblica, «ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi». Pertanto, l'art. 22 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recando disposizioni che stabiliscono la riduzione delle spese di funzionamento per enti ed organismi pubblici non territoriali, se ritenuta applicabile agli enti non territoriali regionali, oltrepasserebbe i limiti imposti al legislatore statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, che si sono qui delineati, in violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione. 8. - Con l'art. 26 del decreto-legge impugnato sono stati previsti controlli e sanzioni per il mancato rispetto della regola sul contenimento delle spese da parte degli enti inseriti nel conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni. La disposizione prevede che «In caso di mancato rispetto del limite di spesa annuale di cui all'art. 1, comma 57, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, da parte degli enti individuati ai sensi dei commi 5 e 6 del medesimo articolo, fatte salve le esclusioni previste dal predetto comma 57, i trasferimenti statali a qualsiasi titolo operati a favore di detti enti sono ridotti in misura pari alle eccedenze di spesa risultanti dai conti consuntivi relativi agli esercizi 2005, 2006 e 2007. Gli enti interessati che non ricevono contributi a carico del bilancio dello Stato sono tenuti a versare all'entrata del bilancio dello Stato, con imputazione al capo X, capitolo 2961, entro il 30 settembre rispettivamente degli anni 2006, 2007 e 2008, un importo pari alle eccedenze risultanti dai predetti conti consuntivi. Le amministrazioni vigilanti sono tenute a dare, rispettivamente, entro il 31 luglio degli anni 2006, 2007 e 2008, comunicazione delle predette eccedenze di spesa al Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato». La norma, dunque, impone anche agli enti che non hanno ricevuto contributi statali il versamento delle eccedenze di spesa risultanti dai consuntivi degli anni 2005, 2006 e 2007 entro il 30 settembre di ogni anno. Si tratta di una disposizione irragionevole, dato che stabilisce il medesimo obbligo sia per gli enti che hanno ricevuto i contributi statali sia per quelli che non li hanno ricevuti. Un tal genere di disciplina sottraendo risorse al bilancio dell'ente senza una base logica giustificativa risulta irrispettosa della sfera di autonomia finanziaria e contabile riconosciuta alle regioni e agli enti locali e contraria al principio di buon andamento dell'azione amministrativa. A questo proposito va rilevato come la norma in oggetto contenga un precetto preciso (il versamento delle eccedenze di spesa, espressamente individuate, entro un termine stabilito), che richiede ai fini della propria concreta applicazione soltanto un'attivita' di materiale esecuzione, e non possa quindi essere in alcun modo riconosciuta alla stessa la natura di norma di principio dell'armonizzazione dei bilanci pubblici e del coordinamento della finanza pubblica. Pertanto, l'art. 26 del decreto-legge impugnato risulta dettato in violazione degli artt. 3, 97, 117, 118 e 119 Cost. 9. - Si pone in contrasto con il dettato costituzionale ed, in particolare, con gli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione anche l'art. 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223. La disposizione ora citata contiene norme di contenimento della spesa per commissioni, comitati ed organismi, che, ai sensi del comma 6, non trovano diretta applicazione alle regioni, alle province autonome, agli enti locali e agli enti del Servizio sanitario nazionale, ma per i quali costituiscono comunque «disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica». La formulazione di quest'ultima norma - poco chiara, in verita', - non e' comunque in grado di impedire che le norme contenute nell'articolo citato abbiano la natura di disposizioni puntuali, capaci di porre in essere vincoli precisi alla spesa di regioni ed enti locali. Il primo comma dell'art. 29 citato stabilisce che la spesa complessiva sostenuta dalle amministrazioni per organi collegiali e altri organismi, anche monocratici, comunque denominati, venga ridotta del trenta per cento rispetto a quella sostenuta nell'anno 2005 e prevede, da un lato, che le amministrazioni adottino con immediatezza, e comunque entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, le necessarie misure di adeguamento ai nuovi limiti di spesa, dall'altro lato, che tale riduzione si aggiunga a quella prevista dall'art. 1, comma 58, della legge 23 dicembre 2005, n. 266. Nei successivi commi 2 e 3 si stabiliscono, rispettivamente, per le amministrazioni statali e per quelle non statali, le modalita' specifiche di riordino degli organismi con la individuazione della natura degli atti con cui le amministrazioni dovranno procedere e la statuizione dei relativi criteri. Si prevede inoltre che «gli organismi non individuati dai provvedimenti previsti dai commi 1 e 2 sono comunque soppressi» (comma 4) e che «scaduti i termini di cui ai commi 1, 2 e 3 senza che si sia provveduto agli adempimenti ivi previsti e' fatto divieto alle amministrazioni di corrispondere compensi ai componenti degli organismi di cui al comma 1» (comma 5). Prevedendo riduzioni percentuali precise ad una singola voce di spesa e indicando le modalita' di contenimento della medesima, le norme in oggetto stabiliscono limiti precisi e stringenti all'autonomia finanziaria e di organizzazione delle regioni e degli enti locali e sono del tutto inidonee a svolgere la funzione di principi di coordinamento della finanza pubblica, come vorrebbe definirle il legislatore statale. Senza ripetere quanto gia' detto in ordine alla illegittimita' costituzionale delle disposizioni che pongono limiti alle singole voci di spesa di regioni ed enti locali, si puo' fermare l'attestazione sul valore delle previsioni del tenore di cui al comma 6 dell'art. 29 del decreto-legge impugnato. Non basta, per ritenere conforme a Costituzione la relativa disciplina, che la norma si definisca disposizione di principio di «coordinamento della finanza pubblica». E' evidente, infatti, che autoqualificazioni di tal fatta non esimono il legislatore statale dal rispettare i limiti costituzionali ad esso imposti a tutela dell'autonomia regionale. Affermare che le norme contenute nell'art. 29 del decreto-legge n. 223 del 2006, di natura estremamente puntuale, non si applicano a regioni ed enti locali, qualificandole subito dopo come principi di coordinamento della finanza pubblica, significa semplicemente tentare di superare con un artifizio retorico i confini del potere legislativo statale in materia. Come si e' piu' volte chiarito in questo ricorso, la natura del principio della norma e' incompatibile con statuizioni del piu' basso grado di astrattezza e che contengono una disciplina in se' compiuta come quella contenuta nell'art. 29 impugnato. 10. - Il legislatore statale non ha rispettato la competenza legislativa e finanziaria regionale nemmeno nel dettare l'art. 30 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, con cui ha sostituito il comma 204 dell'art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, del resto gia' impugnato dalla regione del Veneto. La disposizione in discorso viola la sfera di autonomia delle regioni, garantita dalla Costituzione, imponendo il divieto di assunzioni di personale, a qualsiasi titolo, nel caso di mancato conseguimento degli obiettivi di risparmio di spesa previsti nel comma 198 della legge finanziaria per il 2006. Giova a questo punto ricordare quanto stabilito dal citato comma 198: «le amministrazioni regionali e gli enti locali di cui all'art. 2, commi 1 e 2, del testo unico di cui al d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, nonche' gli enti del Servizio sanitario nazionale, fermo restando il conseguimento delle economie di cui all'art. 1, commi 98 e 107, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica adottando misure necessarie a garantire che le spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'IRAP, non superino per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008 il corrispondente ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1 per cento. A tal fine si considerano anche le spese per il personale a tempo determinato, con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, o che presta servizio con altre forme di rapporto di lavoro flessibile o con convenzioni». Tornando alle norme contenute nell'art. 30 del decreto-legge n. 223 del 2006, esse prevedono, ai fini del monitoraggio e della verifica degli adempimenti di cui al comma 198, ora ricordato, la costituzione di un tavolo tecnico con rappresentanti del sistema delle autonomie designati dai relativi enti esponenziali, del Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica, della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento degli affari regionali, con l'obiettivo di: «a) acquisire, per il tramite del Ministero dell'economia e delle finanze, la documentazione da parte degli enti destinatari della norma, certificata dall'organo di revisione contabile, delle misure adottate e dei risultati conseguiti; b) fissare specifici criteri e modalita' operative, anche campionarie per i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti e per le comunita' montane con popolazione fino a 50.000 abitanti, per il monitoraggio e la verifica dell'effettivo conseguimento, da parte degli enti, dei previsti risparmi di spesa; c) verificare, sulla base dei criteri e delle modalita' operative di cui alla lett. b) e della documentazione ricevuta, la puntuale applicazione della disposizione ed i casi di mancato adempimento; d) elaborare analisi e proposte operative dirette al contenimento strutturale della spesa di personale per gli enti destinatari del comma 198». Al comma 2004 della legge finanziaria per il 2006 viene poi aggiunto un ulteriore comma 204-bis, contenente un obbligo di comunicazione alla Corte dei conti, e il divieto di assunzione a qualsiasi titolo in caso di mancato invio della documentazione da parte degli enti, certificata dall'organo di revisione contabile, delle misure adottate e dei risultati conseguiti. Dispone, infatti, il comma 204-bis che «le risultanze delle operazioni di verifica del tavolo tecnico di cui al comma 204 sono trasmesse con cadenza annuale, alla Corte dei conti, anche ai fini del referto sul costo del lavoro pubblico di cui al titolo V del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Il mancato invio della documentazione di cui alla lettera a) del comma 204 da parte degli enti comporta, in ogni caso, il divieto di assunzione a qualsiasi titolo». Molte sono le censure che si possono sollevare con riferimento alle disposizioni contenute nell'art. 30 del decreto-legge impugnato, che si sono appena riportate. In tutta evidenza, siamo di fronte a norme contenenti precetti puntuali e specifici, autoapplicative, che non lasciano alla regione margini di disposizione in via autonoma, nonostante la materia rientri nell'ambito del «coordinamento della finanza pubblica» di cui all'art. 117, comma terzo, Cost., in cui allo Stato spetta solo il potere di dettare i principi fondamentali e non l'intera disciplina della materia. Del resto, codesto ecc.mo Collegio, con la sentenza n. 390 del 2004, ha gia' dichiarato costituzionalmente illegittime analoghe norme statali contenute nella legge finanziaria 2003. Senza voler annoiare il Collegio, che certamente ben conosce la sua giurisprudenza, si ricordera' che nella sentenza ora citata sono state accolte le censure mosse alle disposizioni di cui al comma 11 dell'art. 34 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003), con le quali si stabiliva che le assunzioni a tempo indeterminato delle regioni e degli enti locali, «fatto salvo il ricorso alle procedure di mobilita', devono, comunque, essere contenute, fatta eccezione per il personale infermieristico del Servizio sanitario nazionale, entro percentuali non superiori al 50 per cento delle cessazioni dal servizio verificatesi nel corso dell'anno 2002». Nella pronuncia n. 390 del 2004, prima ricordata, codesto ecc.mo Collegio ha osservato che la norma della legge finanziaria 2003 «non si limita a fissare un principio di coordinamento della finanza pubblica, ma pone un precetto specifico e puntuale sull'entita' della copertura delle vacanze verificatesi nel 2002, imponendo che tale copertura non sia superiore al 50 per cento: precetto che, proprio perche' specifico e puntuale e per il suo oggetto, si risolve in una indebita invasione, da parte della legge statale, dell'area (organizzazione della propria struttura amministrativa) riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale puo' prescrivere criteri (...) ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica) ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi». Anche la norma impugnata presenta analoghi caratteri di illegittimita' costituzionale, prevedendo divieti di assunzioni di personale quale conseguenza del mancato conseguimento degli obiettivi di risparmio di spesa, che violano l'autonomia regionale in materia di organizzazione degli uffici, unitamente alla autonomia di spesa, di cui agli artt. 117, 118 e 119 Cost. 11. - E' costituzionalmente illegittimo - in quanto introduce norme che incidono sull'autonomia legislativa e finanziaria regionale - anche l'art. 34, comma 1 del decreto-legge impugnato, recante «Criteri per i trattamenti accessori massimi e pubblicita' degli incarichi di consulenza». La disposizione ora citata aggiunge un ulteriore periodo all'art. 24, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Quest'ultimo articolo dispone che con contratto individuale venga stabilito il trattamento economico fondamentale per gli incarichi di uffici dirigenziali di livello generale, assumendo come parametri di base i valori economici massimi contemplati dai contratti collettivi per le aree dirigenziali, e vengono determinati gli istituti del trattamento economico accessorio, collegato al livello di responsabilita' attribuito con l'incarico di funzione ed ai risultati conseguiti nell'attivita' amministrativa e di gestione, ed i relativi importi. Il periodo aggiunto dalla norma qui censurata prevede che «con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze sono stabiliti i criteri per l'individuazione dei trattamenti accessori massimi, secondo principi di contenimento della spesa e di uniformita' e perequazione. Come si puo' comprendere dalla semplice lettura del testo della disposizione ora richiamata, anche in questo caso siamo di fronte ad una norma statale in materia di finanza pubblica dal contenuto specifico, dettagliato e autoapplicativo. Se pure legittimamente finalizzata al contenimento della spesa pubblica, la previsione in oggetto non rispetta il dettato degli artt. 117, comma 3 e 119, perche' non costituisce un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica e non consente al legislatore regionale di porre in essere alcuna normativa di dettaglio della materia non solo in via legislativa, ma nemmeno attraverso una normazione secondaria di mera esecuzione. Infatti, precedendo una disciplina uniforme posta in essere con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri si impedisce alle regioni di stabilire un diverso regime economico dei trattamenti accessori massimi per gli incarichi di uffici dirigenziali di livello generale, in relazione alle concrete realta' regionali. Da quanto si e' esposto nel presente ricorso ritiene la difesa della regione del Veneto che risulti con chiarezza il mancato rispetto del dettato costituzionale da parte di tutte le norme del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, impugnate.