Ricorso  della Regione Veneto, in persona del vice presidente pro
tempore  della  giunta  regionale  -  in  assenza  del  presidente  -
autorizzato mediante deliberazione della giunta stessa 7 agosto 2006,
n. 2555,  rappresentata  e difesa, come da procura speciale a margine
del  presente  atto,  dagli  avv.  prof.  Mario Bertolissi di Padova,
Romano  Morra  di Venezia e Andrea Manzi di Roma, presso quest'ultimo
domiciliata in Roma, via F. Confalonieri n. 5;

    Contro  il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  presso  la quale e'
domiciliato  ex  lege  in  Roma,  via  dei  Portoghesi  n. 12, per la
declaratoria  di  illegittimita' costituzionale, per violazione degli
artt. 3, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 Cost., degli artt. 2, commi 1 e
3;  3,  5,  comma 2; 6, 12, comma 1; 13, 22, 26, 29, 30, 34, comma 1,
del   decreto-legge  4 luglio  2006,  n. 223,  recante  «Disposizioni
urgenti per il rilascio economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia
di  entrate  e  di  contrasto all'evasione fiscale», pubblicato nella
Gazzetta  Ufficiale,  n. 153  del  4 luglio  2006 (Rettifica Gazzetta
Ufficiale n. 159 dell'11 luglio 2006).

                           Fatto e diritto

    1.   -   Il   decreto-legge   4 luglio   2006,   n. 223,  recante
«Disposizioni  urgenti  per  il  rilancio economico e sociale, per il
contenimento  e  la  razionalizzazione  della spesa pubblica, nonche'
interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale»
(c.d. decreto Bersani), prevede numerose norme, contenute negli artt.
2,  commi  1  e 3; 3, 5, comma 2; 6, 12, comma 1; 13, 22, 26, 29, 30,
34,  comma  1,  che,  ad  avviso  della Regione Veneto, si pongono in
contrasto  con  la  Costituzione,  violando  l'autonomia legislativa,
amministrativa e finanziaria regionale, nonche' il principio di leale
collaborazione.
    In  particolare,  molte di queste disposizioni ledono l'autonomia
legislativa,  amministrativa e organizzativa regionale, non recependo
per  altro  gli  orientamenti  formulati  da codesto ecc.mo Collegio,
sotto molteplici profili in ordine:
        a) alla ricostruzione dei rapporti tra legislazione statale e
regionale  definiti  dal  nuovo  art. 117  Cost., anche alla luce del
principio  di  leale  collaborazione  tra  Stato  e  regioni,  di cui
all'art. 120  Cost.,  con  specifico  riferimento  alle materie della
tutela  della  concorrenza,  delle  professioni, del commercio, della
programmazione socio-sanitaria e del trasporto pubblico locale;
        b) all'attuazione  e  alla  cogenza delle disposizioni di cui
all'art. 119  Cost.,  congiuntamente  a quelle degli artt. 117, terzo
comma,  e  118  Cost.,  con  riferimento  all'autonomia finanziaria e
contabile  delle  regioni  e  alla natura di principio delle norme di
coordinamento della finanza pubblica.
    Per  meglio illustrare i profili di illegittimita' costituzionale
denunciati  si  procedera'  qui  di seguito ad un'analisi di ciascuna
delle norme impugnate.
    2.  -  L'art. 2,  nella volonta' di dettare «Disposizioni urgenti
per   la   tutela   della   concorrenza   nel   settore  dei  servizi
professionali», ha previsto, rispettivamente al comma 1 e al comma 3,
che «in conformita' al principio comunitario di libera concorrenza ed
a  quello  di  liberta'  di circolazione delle persone e dei servizi,
nonche'  al  fine  di assicurare agli utenti un'effettiva facolta' di
scelta  nell'esercizio  dei  propri  diritti  e di comparazione delle
prestazioni  offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del
presente   decreto   sono  abrogate  le  disposizioni  legislative  e
regolamentari  che  prevedono  con  riferimento alle attivita' libero
professionali e intellettuali:
        a) la  fissazione  di  tariffe  obbligatorie  fisse  o minime
ovvero  il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento
degli obiettivi perseguiti;
        b) il divieto, anche parziale, di pubblicizzare i titoli e le
specializzazioni   professionali,  le  caratteristiche  del  servizio
offerto e il prezzo delle prestazioni;
        c) il  divieto di fornire all'utenza servizi professionali di
tipo interdisciplinare da parte di societa' di persone o associazioni
tra professionisti, fermo restando che il medesimo professionista non
puo'   partecipare  a  piu'  di  una  societa'  e  che  la  specifica
prestazione deve essere resa da uno o piu' professionisti previamente
indicati,  sotto  la  propria  personale  responsabilita»  e  che «le
disposizioni  deontologiche  e  pattizie e i codici di autodisciplina
che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche
con  l'adozione di misure a garanzia della qualita' delle prestazioni
professionali,   entro  il  1°  gennaio  2007.  In  caso  di  mancato
adeguamento,  a  decorrere  dalla medesima data le norme in contrasto
con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso nulle».
    Appare  evidente che le disposizioni in discorso contengono norme
di  minuto  dettaglio  ed  autoapplicative,  che  ledono  l'autonomia
legislativa regionale.
    L'art. 117  della  Costituzione, al suo terzo comma, annovera tra
le   materie   di   legislazione   concorrente  la  disciplina  delle
«professioni»,  attribuendo  alle  regioni  la  potesta' legislativa,
salvo  che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata
alla legislazione dello Stato.
    Ora,  le  norme  del  «decreto Bersani» sopra riportate non hanno
nessuna   delle   caratteristiche   che   individuano   un  principio
fondamentale   poiche'   pongono  in  essere  delle  modifiche  molto
puntuali,   oltre  che  rilevanti,  alla  disciplina  della  materia,
abolendo  la  fissazione  delle tariffe obbligatorie fisse o minime e
numerosi  divieti  fino  ad  ora  vigenti,  quali  quello di pattuire
compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi (lett. a) o di
pubblicizzare titoli, specializzazioni e servizio offerto (lett. b) e
di  fornire  servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte
di societa' di persone o associazioni tra professionisti (lett. c).
    Le  abolizioni  cosi'  previste  non necessitano in se' di alcuna
norma di dettaglio per darvi attuazione, privando, di conseguenza, le
regioni di qualsiasi potere in materia.
    A  nulla  varrebbe  invocare  i  principi  comunitari  di  libera
concorrenza e di circolazione delle persone e dei servizi, richiamati
nel  primo  comma  dell'art. 2  del decreto-legge n. 223 del 2006, al
fine  di  superare  le  censure prospettate e affermare la competenza
statale.
    Come  ha  avuto  modo  di osservare codesto ecc.mo Collegio nella
sentenza  14  gennaio  2004,  n. 14  e come vedremo meglio a breve in
altra  parte  del  presente ricorso, una concezione cosi' ampia della
competenza   attibuita   allo   Stato  in  materia  di  tutela  della
concorrenza  -  «che  non  presenta  i  caratteri  di  una materia di
estensione  certa,  ma  quelli  di una funzione esercitabile sui piu'
diversi  oggetti»  -  finirebbe  per  vanificare lo schema di riparto
dell'art. 117  Cost., secondo il quale sono «attribuite alla potesta'
legislativa  residuale  e  concorrente  delle  regioni materia la cui
disciplina incide innegabilmente sullo sviluppo economico».
    In  altre  parole  la  tutela  della  concorrenza non puo' essere
utilizzata  quale  fondamento  di legittimazione del potere normativo
statale  esercitato  in  modo  da non lasciare, irragionevolmente, il
minimo  spazio  non  solo per un'ipotetica legislazione ulteriore, ma
persino per una normazione secondaria di mera esecuzione.
    3.   -   Analogo   richiamo  alle  disposizioni  dell'ordinamento
comunitario   in   materia  di  tutela  della  concorrenza  e  libera
circolazione  delle  merci e dei servizi viene svolto nell'art. 3 del
decreto-legge  impugnato, recante «Regole di tutela della concorrenza
nel settore della distribuzione commerciale».
    Per  poter evidenziare i profili di illegittimita' costituzionale
delle   norme   contenute  nell'articolo  ora  citato  e'  necessario
riportare qui di seguito per esteso il testo della disposizione:
    «Ai  sensi  delle  disposizioni  dell'ordinamento  comunitario in
materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci
e  dei  servizi  ed  al  fine di garantire la liberta' di concorrenza
secondo  condizioni  di  pari opportunita' ed il corretto ed uniforme
funzionamento  del  mercato,  nonche'  di  assicurare  ai consumatori
finali  un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita'
all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi
dell'art. 117,  secondo  comma, lettere e) ed m), della Costituzione,
le attivita' economiche di distribuzione commerciale, ivi comprese la
somministrazione  di alimenti e bevande, sono svolte senza i seguenti
limiti e prescrizioni:
        a) l'iscrizione  a  registri  abilitanti  ovvero  possesso di
requisiti  professionali  soggettivi  per  l'esercizio  di  attivita'
commerciali,  fatti  salvi  quelli riguardanti la tutela della salute
igienico-sanitaria degli alimenti;
        b)  il rispetto di distanze minime obbligatorie tra attivita'
commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio;
        c) le  limitazioni quantitative all'assorbimento merceologico
offerto negli esercizi commerciali;
        d) il   rispetto  di  limiti  riferiti  a  quote  di  mercato
predefinite   o   calcolate   sul  volume  delle  vendite  a  livello
territoriale sub regionale;
        e) la  fissazione  di  divieti generali ad effettuare vendite
promozionali,   a   meno   che   non  siano  prescritti  dal  diritto
comunitario;
        f)    l'ottenimento   di   autorizzazioni   preventive  e  le
limitazioni   di   ordine   temporale  allo  svolgimento  di  vendite
promozionali  di  prodotti,  effettuate  all'interno  degli  esercizi
commerciali» (comma 1);
    «Sono  fatte  salve  le  disposizioni che disciplinano le vendite
sottocosto e i saldi di fine stagione» (comma 2);
    «A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto
sono  abrogate le disposizioni legislative e regolamentari statali di
disciplina  del settore della distribuzione commerciale incompatibili
con le disposizioni di cui al comma 1» (comma 3);
    «Le  regioni  e  gli enti locali adeguano le proprie disposizioni
legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al
comma 1 entro il 1° gennaio 2007» (comma 4).
    La  disciplina  relativa  alla  distribuzione  commerciale che il
legislatore  statale  ha  dettato, ritenendo di far uso delle proprie
competenze   nelle   materie   «tutela   della   concorrenza»   e  di
«determinazione  dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti
i  diritti  civili  e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale», viola l'autonomia legislativa e amministrativa
riconosciuta  alla  regione, ai sensi degli artt. 117 e 118 Cost., in
materia di commercio.
    Giova a questo riguardo ricordare che la disciplina del commercio
rientra,  ai  sensi  del  comma 4 dell'art. 117 Cost., nella potesta'
legislativa  piu'  ampia  delle  regioni,  non essendo compresa nelle
materie  elencate  nel  secondo  e  terzo comma del medesimo articolo
(come  codesto  ecc.mo  Collegio  ha  precisato,  tra  l'altro, nella
sentenza 13 gennaio 2004, n. 1 e nell'ord. 11 maggio 2006, n. 199).
    A  questo  punto  pero' si rendono necessarie alcune osservazioni
sui  rapporti  tra  la  competenza  legislativa  statale esclusiva in
materia  di  «tutela della concorrenza» e quella regionale in materia
di commercio.
    Tale  «materia» (materia-non materia, per usare una significativa
espressione utilizzata dalla dottrina), al pari di quella di cui alla
lettera  m)  dello  stesso secondo comma dell'art. 117 Cost., rientra
tra  quelle  a  cui  la  maggior  parte  degli  autori, seguiti dalla
giurisprudenza  costituzionale (a partire dalla sent. 26 giugno 2002,
n. 282),  attribuisce  una  portata «trasversale» o «orizzontale», in
quanto si intersecano con materie intese in senso tradizionale e che,
quindi,   fondando   un   potere   legislativo   statale  determinano
interferenze  tra  potesta'  statale e regionale non solo nell'ambito
delle  materie  di competenza, ma anche all'interno delle materie che
dovrebbero  essere  di  competenza  c.d.  residuale delle regioni, ai
sensi del comma 4, dell'art. 117 Cost.
    Senza  poter  affrontare  in  questa  sede  i  problemi  inerenti
all'individuazione dei caratteri distintivi e dei confini tra materie
«trasversali»  e  materie  di competenza legislativa concorrente o la
questione  circa  l'attitudine  delle prime a costituire un «tipo» di
competenza  distinto  da  quelli espressamente indicati dall'art. 117
Cost., giova rilevare come con riferimento alle materie «trasversali»
si avverta generalmente il problema di evitare che un'interpretazione
lata  di  queste  vanifichi  di  fatto  il  sistema  di riparto delle
competenze tra regioni e Stato a tutto vantaggio di quest'ultimo.
    Focalizzando  l'attenzione  sulla «tutela della concorrenza», non
vi sono dubbi che si arriverebbe certamente all'assurdo se il rilievo
trasversale  della  competenza statale potesse essere esasperato fino
ad  avallare un'interpretazione che precluda alle regioni di porre in
essere    qualsiasi    disciplina,   in   quanto   costituzionalmente
illegittima,  che  possa  avere un rilievo nei rapporti tra imprese o
una ricaduta sul mercato.
    In  dottrina  si e' espresso il timore che l'intervento normativo
statale,  in  presenza dei vincoli comunitari in tema di concorrenza,
possa  risultare  «ripetitivo»  e  «ridondante»,  ovvero che comprima
eccessivamente i margini di autonomia spettanti alle regioni (cfr. R.
Caranta,  La tutela della concorrenza, le competenze legislative e la
difficile  applicazione  del  Titolo  V  della  Costituzione,  in  Le
Regioni, 2004, n. 4, 990 s.).
    Del  resto, come si e' gia' ricordato supra, codesta ecc.ma Corte
costituzionale,   affrontando   la  questione  del  rapporto  tra  le
politiche statali di sostegno del mercato e le competenze legislative
delle  regioni  nel  nuovo Titolo V della nostra Costituzione, con la
sentenza  13  gennaio  2004,  n. 14  ha cosi' argomentato: «una volta
riconosciuto che la nozione di tutela della concorrenza abbraccia nel
loro  complesso  i  rapporti concorrenziali sul mercato e non esclude
interventi  promozionali  dello Stato, si deve tuttavia precisare che
una  dilatazione  massima  di  tale  competenza,  che  non presenta i
caratteri  di  una  materia  di  estensione  certa,  ma quelli di una
funzione  esercitabile  sui  piu'  diversi  oggetti,  rischierebbe di
vanificare  lo  schema  di  riparto  dell'art. 117  Cost.,  che  vede
attribuite  alla  potesta'  legislativa residuale e concorrente delle
regioni   materie  la  cui  disciplina  incide  innegabilmente  sullo
sviluppo economico».
    Il  problema  e' stato risolto, come e' noto, facendo riferimento
al   criterio   sistematico   che   evidenzierebbe  la  volonta'  del
legislatore  costituzionale  del 2001 di unificare in capo allo Stato
«strumenti   di   politica  economica  che  attengono  allo  sviluppo
dell'intero  Paese»;  strumenti  che sono espressione di un carattere
unitario  e  che,  «interpretati  gli  uni  per  mezzo  degli  altri,
risultano  tutti  finalizzati  ad  equilibrare  il  volume di risorse
finanziarie inserite nel circuito economico».
    In  sintesi,  dunque,  l'intervento statale si giustifica «per la
sua  rilevanza  macroeconomica»,  mentre appartengono alla competenza
legislativa  concorrente  o  residuale  delle  regioni gli interventi
«sintonizzati sulla realta' produttiva regionale», tali, comunque, da
non  creare  ostacolo  alla libera circolazione delle persone e delle
cose  fra  le  regioni  e  da non limitare l'esercizio del diritto al
lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.
    Nel  caso  di  specie  un'interpretazione estensiva del carattere
«trasversale»  della  materia-non  materia «tutela della concorrenza»
potrebbe  di  fatto  cancellare  la  competenza legislativa esclusiva
regionale in materia di commercio.
    Come  e' stato osservato, una lettura della lett. e) del comma 2,
dell'art. 117, cosi' ampia da farvi rientrare non solo - come sarebbe
corretto   -   le   «regole  generali»  della  concorrenza  o  quelle
disposizioni  che siano strettamente funzionali al mantenimento della
concorrenza,  ma anche la disciplina di tutte le misure regolamentari
e  amministrative che incidono sull'esercizio di attivita' economiche
«limiterebbe  eccessivamente  la potesta' esclusiva delle regioni, le
quali  in  materie  come  il  commercio  non  potrebbero,  ad esempio
occuparsi  di  autorizzazioni o di orari di apertura e chiusura degli
esercizi   commerciali,   in   quanto   aspetti  che  hanno  riflessi
sull'esercizio delle attivita' economiche» (E. Freni, La tutela della
concorrenza, in Trattato di Diritto Amministrativo, IV, Milano, 2003,
3688).
    Per  altro, del tutto improprio appare il richiamo, contenuto nel
primo  comma  dell'art. 3, alla determinazione dei livelli essenziali
delle  prestazioni,  di  cui  all'art. 117,  comma secondo, lett. m),
Cost.,  anch'essa materia trasversale in ordine alla quale valgono le
considerazioni  sopra  svolte  sulle  letture  di  tali  materie  che
finiscono  per  comprimere  irragionevolmente gli ambiti di autonomia
regionale.
    Infatti,  proprio  a  questo  tipo di interpretazione si dovrebbe
accedere  se  si  volessero far rientrare le disposizioni in discorso
nell'ambito   della   individuazione  dei  livelli  essenziali  delle
prestazioni  concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale.
    4.  -  Irrispettosa  della  competenza  regionale  in  materia di
commercio,  oltre  che  in materia di programmazione socio-sanitaria,
risulta   anche  la  norma  di  cui  al  comma  2,  dell'art. 5,  del
decreto-legge impugnato.
    La disposizione prevede che la vendita al pubblico dei farmaci da
banco   o   di   automedicazione  negli  esercizi  commerciali  della
cosiddetta  grande  distribuzione  sia consentita durante l'orario di
apertura  degli  stessi  e  debba essere effettuata nell'ambito di un
apposito reparto, con l'assistenza di uno o piu' farmacisti abilitati
all'esercizio  della  professione  ed  iscritti  al  relativo ordine.
Restano vietati i concorsi, le operazioni a premio e le vendite sotto
costo aventi ad oggetto farmaci.
    Si  tratta  di una norma di mero dettaglio che non puo' definirsi
conforme  a  Costituzione,  ne'  facendo  rientrare  la disciplina in
discorso  nell'ambito della materia del «commercio», di cui al quarto
comma  dell'art. 117,  ne'  in quella della «tutela della salute», di
cui al terzo comma del medesimo articolo.
    A  tale  proposito si puo' ricordare che nella sentenza n. 87 del
2006  codesto  ecc.mo  Collegio ha avuto modo di precisare come, pure
successivamente  all'entrata  in  vigore  del  nuovo  Titolo  V della
Costituzione,   la   «materia»   della  organizzazione  del  servizio
farmaceutico  vada  ricondotta  al  titolo  di competenza concorrente
della tutela della salute.
    Notava  peraltro sempre codesto ecc.mo Collegio che «la complessa
regolamentazione pubblicistica della attivita' economica di rivendita
dei   farmaci   e'  infatti  preordinata  al  fine  di  assicurare  e
controllare  l'accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal
senso  a  garantire  la  tutela del fondamentale diritto alla salute,
restando  solo  marginale,  sotto  questo  profilo,  sia il carattere
professionale  sia  l'indubbia  natura commerciale dell'attivita' del
farmacista».
    A ben vedere pero' proprio la ratio con cui sono state dettate le
norme   dell'art. 5   del   decreto-legge   4  luglio  2006,  n. 223,
costituisce  una  diversa  prospettiva  di  disciplina  della materia
rispetto alla precedente legislazione vigente in materia.
    Nella volonta' del legislatore, che emerge inequivocabilmente dal
testo   normativo,   non   si   puo'   affermare  che  «il  carattere
professionale»  e  «l'indubbia  natura commerciale dell'attivita' del
farmacista»  restino «solo marginali» rispetto «al fine di assicurare
e controllare l'accesso dei cittadini ai prodotti medicinali», quando
tutta  la  disciplina  viene  dettata  nell'obiettivo  dichiarato  di
ottenere  dei  vantaggi  per  i consumatori in termini di prezzi e di
orari  di  apertura,  sfruttando  le probabili dinamiche commerciali,
piuttosto   che   attraverso   una   regolamentazione   pubblicistica
dell'attivita'.
    La  norma  impugnata, sotto questo profilo, non puo' non venire a
ledere  la  competenza  legislativa  esclusiva  che, come si e' visto
supra, spetta alle regioni in materia di commercio.
    Ma  analoga  lesione dell'autonomia legislativa regionale si puo'
riscontrare  anche  riconducendo  la materia nell'ambito della tutela
della salute.
    Infatti,  nelle  materia  di legislazione concorrente spetta allo
Stato  la  sola  determinazione  dei principi fondamentali, dovendosi
lasciare  alle  regioni  la  possibilita'  di  esercitare la potesta'
legislativa  che a loro e' riconosciuta dall'ultimo periodo del terzo
comma, dell'art. 117 Cost., ora citato.
    Prevedendo  l'orario  di  vendita  dei  farmaci  da  banco  o  di
automedicazione,  le  modalita'  di  vendita (in apposito reparto con
l'assistenza  di  uno  o  piu'  farmacisti)  e  divieti specifici per
concorsi,  operazioni  a  premio  e  vendite sotto costo, il comma 2,
dell'art. 5  contiene  innegabilmente statuizioni al piu' basso grado
di astrattezza, che, per il loro carattere di estremo dettaglio, sono
insuscettibili di sviluppi normativi ulteriori.
    Non   siamo,  quindi,  di  fronte  alla  previsione  di  principi
fondamentali  della materia, il solo tipo di norma che il legislatore
statale e' abilitato a dettare in materia di tutela della salute.
    5.  -  Le  norme  di  cui  all'art. 6 e all'art. 12, comma 1, del
decreto-legge  n. 223  del  2006, recanti, rispettivamente «Deroga al
divieto di cumulo di licenze per il servizio di taxi» e «Disposizioni
in  materia  di  circolazione  dei  veicoli e di trasporto comunale e
intercomunale»,   violano  la  competenza  regionale  in  materia  di
autotrasporto  non  di  linea  e  di trasporto pubblico locale, e, di
conseguenza, gli artt. 117 e 118 della Costituzione.
    La  prima  delle  due  disposizioni  - al fine di assicurare agli
utenti  del  servizio  taxi  una  maggiore  offerta,  in linea con le
esigenze della mobilita' urbana» - ha aggiunto all'art. 8 della legge
15  gennaio 1992, n. 21, dopo il comma 2, un comma 2-bis del seguente
tenore:  «fatta  salva  la  possibilita'  di  conferire nuove licenze
secondo  la vigente programmazione numerica, i comuni possono bandire
pubblici  concorsi, nonche' concorsi riservati ai titolari di licenza
di  taxi,  in  deroga  alle  disposizioni  di cui ai commi 1 e 2, per
l'assegnazione  a  titolo  oneroso  di  licenze  eccedenti la vigente
programmazione  numerica.  Nei  casi  in  cui  i comuni esercitino la
facolta'  di  cui  al  primo  periodo,  i  soggetti di cui all'art. 7
assegnatari  delle  nuove licenze non le possono cedere separatamente
dalla  licenza  originaria.  I proventi derivanti dall'assegnazione a
titolo  oneroso  delle  nuove  licenze  sono ripartiti, in misura non
superiore  all'80  per  cento  e non inferiore al 60 per cento, tra i
titolari  di licenza taxi del medesimo comune che mantengano una sola
licenza.  In  ogni  caso  i  titolari di licenza devono esercitare il
servizio  personalmente,  ovvero  avvalersi di conducenti iscritti al
ruolo  di cui all'art. 6, il cui contratto di lavoro subordinato deve
essere  trasmesso  all'amministrazione  vigilante entro le 24 ore del
giorno  precedente  il servizio. I comuni possono altresi' rilasciare
titoli  autorizzatori  temporanei,  non  cedibili,  per  fronteggiare
eventi straordinari».
    Con  il  primo  comma  dell'art. 12  del  decreto impugnato si e'
stabilito   che   «fermi   restando   i  principi  di  universalita',
accessibilita'  ed  adeguatezza  dei  servizi  pubblici  di trasporto
locale   ed   al   fine   di   assicurare   un  assetto  maggiormente
concorrenziale  delle  connesse attivita' economiche e di favorire il
pieno  esercizio  del  diritto dei cittadini alla mobilita», i comuni
possono   prevedere   «che   il  trasporto  di  linea  di  passeggeri
accessibile  al  pubblico,  in  ambito  comunale e intercomunale, sia
svolto,   in   tutto   il   territorio   o  in  tratte  e  per  tempi
predeterminati,   anche   dai  soggetti  in  possesso  dei  necessari
requisiti  tecnico-professionali, fermi restando la disciplina di cui
al comma 2 ed il divieto di disporre finanziamenti in qualsiasi forma
a  favore dei predetti soggetti. Il comune sede di scalo ferroviario,
portuale  o  aeroportuale  e'  comunque tenuto a consentire l'accesso
allo scalo da parte degli operatori autorizzati ai sensi del presente
comma da comuni del bacino servito».
    Dalla  lettura  dei testi normativi ora riportati emerge come gli
stessi  siano  costituzionalmente  illegittimi  in considerazione del
fatto  che  la  regione  nella  materia e' titolare di una competenza
legislativa  esclusiva,  ai  sensi  del  quarto  comma dell'art. 117,
secondo  il  quale,  come  e'  noto  «spetta alle regioni la potesta'
legislativa   in   riferimento  ad  ogni  materia  non  espressamente
riservata alla legislazione dello Stato».
    Del  resto,  si deve ricordare che gia' il d.lgs. n. 422 del 1997
aveva  conferito  alle regioni ed agli enti locali funzioni e compiti
in  materia  di trasporto pubblico locale, a norma dell'art. 4, comma
4, della legge 15 marzo 1997, n. 59.
    L'impianto  legislativo  introdotto  dal  d.lgs. n. 422 del 1997,
posto   in   essere  anteriormente  alla  promulgazione  della  legge
costituzionale   18   ottobre   2001,   n. 3,   per   altro,  si  era
contraddistinto per una valorizzazione del ruolo svolto dalle regioni
in   questo   settore   e  per  una  sensibilita'  verso  il  modello
concorrenziale elaborato a livello comunitario, pur rinvenendo per il
trasporto pubblico locale vincoli meno stringenti.
    Come   codesta   ecc.ma   Corte   ha   avuto  modo  di  precisare
recentemente,  «la  materia  del  trasporto  pubblico  locale rientra
nell'ambito delle competenze residuali delle regioni di cui al quarto
comma,  dell'art. 117  Cost., come reso evidente anche dal fatto che,
ancor  prima della riforma del Titolo V della Costituzione, il d.lgs.
19  novembre  1997,  n. 422  (Conferimento  alle regioni ed agli enti
locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale,
a norma dell'art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59) aveva
ridisciplinato l'intero settore, conferendo alle regioni ed agli enti
locali  funzioni  e  compiti  relativi a tutti `i servizi pubblici di
trasporto  di  interesse  regionale  e locale con qualsiasi modalita'
effettuati  ed  in  qualsiasi  forma  affidati'  ed escludendo solo i
trasporti  pubblici di interesse nazionale» (cfr. sent. n. 222 dell'8
giugno 2005).
    Se  questa  e'  la  natura delle competenze regionali in materia,
anche  con  riferimento  alle  norme  di cui all'art. 6 ed al comma 1
dell'art. 12,  non  varrebbe  il semplice richiamo alla necessita' di
adottare  una disciplina di tutela della concorrenza per giustificare
l'intervento del legislatore statale.
    Questo e' vero soprattutto se si considera che le norme impugnate
contengono  una  disciplina  compiuta  che  non  lascia spazio ad una
legislazione  regionale ulteriore, con cio' dovendosi dubitare che le
disposizioni   rispettino  i  parametri  della  adeguatezza  e  della
proporzionalita'.
    6.   -   A  finalita'  di  tutela  della  concorrenza  si  ispira
dichiaratamente  anche l'art. 13 del decreto-legge impugnato, recante
«Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e
locali e a tutela della concorrenza».
    Con  le  norme  in esame il legislatore statale ha voluto evitare
alterazioni   o   distorsioni  della  concorrenza  e  del  mercato  e
assicurare   la  parita'  degli  operatori,  impedendo  che  soggetti
destinatari  dei  cosiddetti  «obblighi  di  servizio pubblico», solo
formalmente privatizzati - in quanto i pubblici poteri esercitano nei
loro confronti, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante
per  ragioni  di proprieta', partecipazione finanziaria o in forza di
una  normativa  che la disciplina - possano operare, avvantaggiandosi
del  regime  speciale  di  cui  godono,  anche  sul  libero  mercato,
producendo alterazioni e distorsioni della concorrenza.
    Se  queste  sono le finalita' perseguite dalla disciplina statale
rimane  da  accertare  se qeust'ultima rispetti la sfera di autonomia
regionale   oppure   se,  facendo  valere  ragioni  di  tutela  della
concorrenza,  comprima  irragionevolmente  l'autonomia  legislativa e
amministrativa della regione.
    Leggiamo il testo delle disposizioni:
    «Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e
del  mercato e di assicurare la parita' degli operatori, le societa',
a   capitale   interamente   pubblico   o   misto,  costituite  dalle
amministrazioni  pubbliche  regionali  e  locali per la produzione di
beni  e  servizi strumentali all'attivita' di tali enti, nonche', nei
casi  consentiti  dalla  legge,  per lo svolgimento esternalizzato di
funzioni   amministrative   di   loro   competenza,  debbono  operare
esclusivamente  con  gli  enti  costituenti ed affidanti, non possono
svolgere  prestazioni  a favore di altri soggetti pubblici o privati,
ne' in affidamento diretto ne' con gara, e non possono partecipare ad
altre societa' o enti» (comma 1);
    «Le  predette  societa'  sono  ad oggetto sociale esclusivo e non
possono  agire  in  violazione delle regole di cui al comma 1» (comma
2);
    «Al   fine   di   assicurare   l'effettivita'   delle  precedenti
disposizioni, le societa' di cui al comma 1 cessano entro dodici mesi
dalla data di entrata in vigore del presente decreto le attivita' non
consentite.  A tale fine possono cedere le attivita' non consentite a
terzi  ovvero scorporarle, anche costituendo una separata societa' da
collocare  sul  mercato,  secondo  le  procedure del decreto-legge 31
maggio  1994,  n. 332,  convertito,  con  modificazioni,  dalla legge
30 luglio 1994, n. 474, entro ulteriori dodici mesi» (comma 3);
    «I  contratti conclusi in violazione delle prescrizioni dei commi
1 e 2 sono nulli» (comma 4).
    Come  si  puo'  comprendere  dalla lettura delle disposizioni ora
riportate  con  il  decreto  impugnato  si  e'  posta  in  essere una
disciplina  puntuale  che  non  lascia alcuno spazio alla regione per
dettare  una  normativa  che  tenga  conto  delle necessita' locali e
nemmeno  dei tempi di attuazione dei principi statali secondo criteri
di adeguatezza e proporzionalita'.
    L'art. 13  del  decreto-legge  4 luglio 2006, n. 223, accompagna,
infatti,  la  previsione  dei  limiti  all'attivita'  esercitabile  e
all'oggetto  sociale delle societa' a capitale interamente pubblico o
misto di cui al comma 1 con prescrizioni temporali tassative e con la
sanzione  della  nullita'  dei contratti conclusi in violazione delle
prescrizioni contenute nei primi due commi.
    Le norme in esame, dunque, incidono sull'autonomia organizzativa,
legislativa  e  amministrativa della regione e degli enti locali, non
risultando   proporzionate  e  adeguate  alle  espresse  esigenze  di
liberalizzazione del mercato.
    7.  - L'art. 22 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, contiene
disposizioni   che   stabiliscono   la   riduzione   delle  spese  di
funzionamento per enti ed organismi pubblici non territoriali.
    Sancisce   il   primo  comma  dell'articolo  in  esame  che  «gli
stanziamenti  per  l'anno 2006 relativi a spese per consumi intermedi
dei  bilanci  di  enti  ed  organismi  pubblici non territoriali, che
adottano   contabilita'   anche  finanziaria,  individuati  ai  sensi
dell'art. 1,  commi  5 e 6, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, con
esclusione  delle Aziende sanitarie ed ospedaliere, degli Istituti di
ricovero  e  cura a carattere scientifico, dell'Istituto superiore di
sanita',  dell'Istituto  superiore  per la prevenzione e la sicurezza
del   lavoro,  dell'Agenzia  italiana  del  farmaco,  degli  Istituti
zooprofilattici  sperimentali  e  delle istituzioni scolastiche, sono
ridotti  nella  misura  del  10  per cento, comunque nei limiti delle
disponibilita'  non  impegnate  alla  data  di  entrata in vigore del
presente decreto. Per gli enti ed organismi pubblici che adottano una
contabilita'  esclusivamente  civilistica,  i costi della produzione,
individuati  all'art. 2425,  primo  comma, lett. b), nn. 6), 7) e 8),
del codice civile, previsti nei rispettivi budget 2006, concernenti i
beni  di  consumo  e  servizi  ed il godimento di beni di terzi, sono
ridotti del 10 per cento. Le somme provenienti dalle riduzioni di cui
al  presente  comma  sono  versate  da ciascun ente, entro il mese di
ottobre  2006,  all'entrata del bilancio dello Stato, con imputazione
al capo X, capitolo 2961».
    Il  secondo  comma  dello  stesso art. 22 prevede poi che «per le
medesime  voci  di  spesa  e  di  costo  indicate  al comma 1, per il
triennio 2007-2009, le previsioni non potranno superare l'ottanta per
cento  di  quelle  iniziali  dell'anno  2006,  ferma  restando quanto
previsto  dal  comma  57,  dell'art. 1  della legge 23 dicembre 2004,
n. 311.  Le  somme  corrispondenti  alla  riduzione dei costi e delle
spese  per  effetto del presente comma sono appositamente accantonate
per  essere  versate  da  ciascun ente, entro il 30 giugno di ciascun
anno,  all'entrata  del bilancio dello Stato, con imputazione al capo
X,  capitolo 2961. E' fatto divieto alle Amministrazioni vigilanti di
approvare  i  bilanci  di  enti  ed  organismi  pubblici  in  cui gli
amministratori  non  abbiano espressamente dichiarato nella relazione
sulla gestione di avere ottemperamento alle disposizioni del presente
articolo».
    La   difesa   della   regione  del  Veneto  non  ritiene  che  le
disposizioni  ora  citate siano interpretabili in via estensiva tanto
da  far rientrare nel loro ambito soggettivo di applicazione gli enti
pubblici non territoriali regionali.
    Se  pero'  si volesse seguire una lettura cosi' ampia del dettato
normativo   statale   ne   dovrebbe  discendere  necessariamente  una
violazione  da parte del medesimo dettato normativo degli artt. 117 e
119 Cost.
    Infatti,   con   le  disposizioni  in  oggetto  il  decreto-legge
impugnato  avrebbe  posto  per  le  regioni  vincoli  puntuali ad una
singola voce di spesa, eccedendo in tal modo dai limiti della propria
competenza  in  materia di «coordinamento della finanza pubblica», ai
sensi  dell'art. 117,  terzo  comma,  Cost.,  e  violando l'autonomia
finanziaria di spesa di cui all'art. 119 Cost.
    Nel  medesimo senso, codesto ecc.mo Collegio in numerose pronunce
(ad  esempio,  nelle sentenze nn. 376 del 2003, 4, 36 e 390 del 2004,
417  e  449  del  2005)  ha  avuto  modo  di  precisare,  dichiarando
l'illegittimita' costituzionale di alcune norme statali, che lo Stato
puo' legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche
di  bilancio  -  anche  se  con cio' si determina inevitabilmente una
limitazione  indiretta  dell'autonomia  di spesa degli enti - purche'
pero'  cio'  avvenga  attraverso una «disciplina di principio» e «per
ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali,
condizionati anche dagli obblighi comunitari».
    Piu'  precisamente, se l'imposizione di vincoli alle politiche di
bilancio  di  regioni ed enti locali vuole rimanere nell'ambito della
legittimita'   costituzionale,  essa  dovrebbe  avere  ad  oggetto  o
l'entita'  del  disavanzo  di parte corrente, oppure, ma solo «in via
transitoria  ed  in  vista  degli specifici obiettivi di riequilibrio
della  finanza  pubblica  perseguiti  dal  legislatore  statale»,  la
crescita  della  spesa  corrente. Alla legge statale, pertanto, viene
consentito di stabilire unicamente un «limite complessivo, che lascia
agli  enti  stessi  ampia liberta' di allocazione delle risorse fra i
diversi ambiti e obiettivi di spesa».
    La  previsione da parte della legge statale di limiti all'entita'
di una singola voce di spesa non puo' essere considerata un principio
fondamentale  in  materia  di  armonizzazione  dei bilanci pubblici e
coordinamento  della  finanza  pubblica,  in  quanto pone un precetto
specifico  e  puntuale  sull'entita' della spesa e si risolve percio'
«in   una  indebita  invasione»,  da  parte  dello  Stato,  dell'area
riservata   alle   autonomie   regionali  e  locali,  alle  quali  il
legislatore  nazionale  puo' prescrivere criteri ed obiettivi, quali,
ad esempio, il contenimento della spesa pubblica, «ma non imporre nel
dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli
obiettivi».
    Pertanto,  l'art. 22  del  decreto-legge  4  luglio 2006, n. 223,
recando  disposizioni  che  stabiliscono  la riduzione delle spese di
funzionamento  per  enti  ed  organismi pubblici non territoriali, se
ritenuta   applicabile   agli   enti   non   territoriali  regionali,
oltrepasserebbe i limiti imposti al legislatore statale in materia di
coordinamento  della  finanza pubblica, che si sono qui delineati, in
violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione.
    8.  -  Con  l'art. 26  del  decreto-legge  impugnato  sono  stati
previsti  controlli  e  sanzioni per il mancato rispetto della regola
sul  contenimento  delle spese da parte degli enti inseriti nel conto
economico consolidato delle pubbliche amministrazioni.
    La  disposizione  prevede  che  «In  caso di mancato rispetto del
limite  di  spesa annuale di cui all'art. 1, comma 57, della legge 30
dicembre  2004,  n. 311, da parte degli enti individuati ai sensi dei
commi 5 e 6 del medesimo articolo, fatte salve le esclusioni previste
dal  predetto  comma  57,  i trasferimenti statali a qualsiasi titolo
operati  a  favore  di  detti  enti  sono ridotti in misura pari alle
eccedenze  di  spesa  risultanti  dai  conti consuntivi relativi agli
esercizi  2005,  2006  e  2007. Gli enti interessati che non ricevono
contributi  a  carico  del bilancio dello Stato sono tenuti a versare
all'entrata  del  bilancio  dello  Stato,  con imputazione al capo X,
capitolo 2961, entro il 30 settembre rispettivamente degli anni 2006,
2007  e  2008, un importo pari alle eccedenze risultanti dai predetti
conti  consuntivi.  Le  amministrazioni vigilanti sono tenute a dare,
rispettivamente,  entro  il  31  luglio degli anni 2006, 2007 e 2008,
comunicazione   delle   predette  eccedenze  di  spesa  al  Ministero
dell'economia   e  delle  finanze  -  Dipartimento  della  Ragioneria
generale dello Stato».
    La  norma,  dunque, impone anche agli enti che non hanno ricevuto
contributi  statali il versamento delle eccedenze di spesa risultanti
dai  consuntivi degli anni 2005, 2006 e 2007 entro il 30 settembre di
ogni anno.
    Si  tratta di una disposizione irragionevole, dato che stabilisce
il  medesimo obbligo sia per gli enti che hanno ricevuto i contributi
statali sia per quelli che non li hanno ricevuti.
    Un  tal  genere  di  disciplina  sottraendo  risorse  al bilancio
dell'ente  senza  una base logica giustificativa risulta irrispettosa
della  sfera  di  autonomia finanziaria e contabile riconosciuta alle
regioni e agli enti locali e contraria al principio di buon andamento
dell'azione amministrativa.
    A  questo proposito va rilevato come la norma in oggetto contenga
un   precetto  preciso  (il  versamento  delle  eccedenze  di  spesa,
espressamente  individuate, entro un termine stabilito), che richiede
ai  fini della propria concreta applicazione soltanto un'attivita' di
materiale  esecuzione,  e  non  possa  quindi  essere  in  alcun modo
riconosciuta   alla   stessa   la   natura   di  norma  di  principio
dell'armonizzazione  dei  bilanci  pubblici e del coordinamento della
finanza pubblica.
    Pertanto,  l'art. 26  del decreto-legge impugnato risulta dettato
in violazione degli artt. 3, 97, 117, 118 e 119 Cost.
    9.  -  Si  pone in contrasto con il dettato costituzionale ed, in
particolare,  con  gli  artt. 117, 118 e 119 della Costituzione anche
l'art. 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223.
    La  disposizione  ora citata contiene norme di contenimento della
spesa per commissioni, comitati ed organismi, che, ai sensi del comma
6,  non  trovano  diretta  applicazione  alle  regioni, alle province
autonome,  agli  enti  locali  e  agli  enti  del  Servizio sanitario
nazionale,  ma  per  i  quali costituiscono comunque «disposizioni di
principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica».
    La  formulazione di quest'ultima norma - poco chiara, in verita',
-  non  e'  comunque  in  grado  di  impedire  che le norme contenute
nell'articolo  citato  abbiano  la  natura  di disposizioni puntuali,
capaci  di  porre  in essere vincoli precisi alla spesa di regioni ed
enti locali.
    Il  primo  comma  dell'art. 29  citato  stabilisce  che  la spesa
complessiva  sostenuta  dalle amministrazioni per organi collegiali e
altri   organismi,  anche  monocratici,  comunque  denominati,  venga
ridotta  del  trenta  per cento rispetto a quella sostenuta nell'anno
2005  e  prevede,  da  un  lato,  che le amministrazioni adottino con
immediatezza, e comunque entro trenta giorni dalla data di entrata in
vigore  del  decreto,  le  necessarie  misure di adeguamento ai nuovi
limiti  di  spesa,  dall'altro lato, che tale riduzione si aggiunga a
quella  prevista dall'art. 1, comma 58, della legge 23 dicembre 2005,
n. 266.
    Nei  successivi commi 2 e 3 si stabiliscono, rispettivamente, per
le  amministrazioni  statali  e  per quelle non statali, le modalita'
specifiche  di  riordino  degli organismi con la individuazione della
natura  degli atti con cui le amministrazioni dovranno procedere e la
statuizione dei relativi criteri.
    Si  prevede  inoltre  che  «gli  organismi  non  individuati  dai
provvedimenti  previsti  dai  commi  1  e  2 sono comunque soppressi»
(comma 4) e che «scaduti i termini di cui ai commi 1, 2 e 3 senza che
si sia provveduto agli adempimenti ivi previsti e' fatto divieto alle
amministrazioni   di   corrispondere  compensi  ai  componenti  degli
organismi di cui al comma 1» (comma 5).
    Prevedendo  riduzioni  percentuali precise ad una singola voce di
spesa  e  indicando  le  modalita' di contenimento della medesima, le
norme   in   oggetto   stabiliscono   limiti   precisi  e  stringenti
all'autonomia  finanziaria  e di organizzazione delle regioni e degli
enti  locali  e  sono  del  tutto  inidonee a svolgere la funzione di
principi  di  coordinamento  della  finanza  pubblica,  come vorrebbe
definirle il legislatore statale.
    Senza  ripetere  quanto  gia' detto in ordine alla illegittimita'
costituzionale  delle  disposizioni  che  pongono limiti alle singole
voci   di   spesa   di  regioni  ed  enti  locali,  si  puo'  fermare
l'attestazione sul valore delle previsioni del tenore di cui al comma
6 dell'art. 29 del decreto-legge impugnato.
    Non  basta,  per  ritenere  conforme  a  Costituzione la relativa
disciplina,  che  la  norma si definisca disposizione di principio di
«coordinamento della finanza pubblica».
    E'  evidente,  infatti,  che  autoqualificazioni di tal fatta non
esimono il legislatore statale dal rispettare i limiti costituzionali
ad esso imposti a tutela dell'autonomia regionale.
    Affermare  che  le norme contenute nell'art. 29 del decreto-legge
n. 223  del 2006, di natura estremamente puntuale, non si applicano a
regioni  ed  enti locali, qualificandole subito dopo come principi di
coordinamento della finanza pubblica, significa semplicemente tentare
di   superare   con  un  artifizio  retorico  i  confini  del  potere
legislativo statale in materia.
    Come  si  e' piu' volte chiarito in questo ricorso, la natura del
principio della norma e' incompatibile con statuizioni del piu' basso
grado  di astrattezza e che contengono una disciplina in se' compiuta
come quella contenuta nell'art. 29 impugnato.
    10.  -  Il  legislatore  statale  non ha rispettato la competenza
legislativa e finanziaria regionale nemmeno nel dettare l'art. 30 del
decreto-legge  4  luglio 2006, n. 223, con cui ha sostituito il comma
204  dell'art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, del resto gia'
impugnato dalla regione del Veneto.
    La  disposizione  in  discorso  viola la sfera di autonomia delle
regioni,  garantita  dalla  Costituzione,  imponendo  il  divieto  di
assunzioni  di  personale,  a  qualsiasi  titolo, nel caso di mancato
conseguimento  degli  obiettivi  di  risparmio  di spesa previsti nel
comma 198 della legge finanziaria per il 2006.
    Giova  a questo punto ricordare quanto stabilito dal citato comma
198:   «le  amministrazioni  regionali  e  gli  enti  locali  di  cui
all'art. 2,  commi  1 e 2, del testo unico di cui al d.lgs. 18 agosto
2000,  n. 267,  nonche'  gli  enti  del Servizio sanitario nazionale,
fermo  restando  il  conseguimento  delle economie di cui all'art. 1,
commi 98 e 107, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, concorrono alla
realizzazione  degli  obiettivi  di finanza pubblica adottando misure
necessarie  a  garantire  che  le  spese di personale, al lordo degli
oneri  riflessi  a  carico  delle  amministrazioni  e  dell'IRAP, non
superino  per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008 il corrispondente
ammontare  dell'anno  2004  diminuito dell'1 per cento. A tal fine si
considerano  anche le spese per il personale a tempo determinato, con
contratto  di  collaborazione coordinata e continuativa, o che presta
servizio  con  altre  forme  di  rapporto  di lavoro flessibile o con
convenzioni».
    Tornando  alle  norme  contenute  nell'art. 30  del decreto-legge
n. 223  del  2006,  esse  prevedono, ai fini del monitoraggio e della
verifica  degli  adempimenti  di  cui al comma 198, ora ricordato, la
costituzione  di  un  tavolo  tecnico  con rappresentanti del sistema
delle   autonomie  designati  dai  relativi  enti  esponenziali,  del
Ministero   dell'economia   e  delle  finanze  -  Dipartimento  della
Ragioneria  generale  dello Stato, della Presidenza del Consiglio dei
ministri - Dipartimento della funzione pubblica, della Presidenza del
Consiglio  dei  ministri  -  Dipartimento degli affari regionali, con
l'obiettivo di:
        «a) acquisire,  per  il tramite del Ministero dell'economia e
delle  finanze,  la  documentazione  da  parte degli enti destinatari
della  norma,  certificata  dall'organo di revisione contabile, delle
misure adottate e dei risultati conseguiti;
        b) fissare  specifici  criteri  e  modalita' operative, anche
campionarie  per i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti
e  per  le  comunita' montane con popolazione fino a 50.000 abitanti,
per  il  monitoraggio  e la verifica dell'effettivo conseguimento, da
parte degli enti, dei previsti risparmi di spesa;
        c) verificare,  sulla  base  dei  criteri  e  delle modalita'
operative  di  cui  alla lett. b) e della documentazione ricevuta, la
puntuale  applicazione  della  disposizione  ed  i  casi  di  mancato
adempimento;
        d) elaborare   analisi   e   proposte  operative  dirette  al
contenimento  strutturale  della  spesa  di  personale  per  gli enti
destinatari del comma 198».
    Al  comma  2004  della  legge  finanziaria  per il 2006 viene poi
aggiunto  un  ulteriore  comma  204-bis,  contenente  un  obbligo  di
comunicazione  alla  Corte  dei  conti,  e il divieto di assunzione a
qualsiasi  titolo  in  caso  di mancato invio della documentazione da
parte  degli  enti,  certificata  dall'organo di revisione contabile,
delle misure adottate e dei risultati conseguiti.
    Dispone,  infatti,  il  comma  204-bis  che  «le risultanze delle
operazioni  di  verifica  del tavolo tecnico di cui al comma 204 sono
trasmesse  con  cadenza  annuale, alla Corte dei conti, anche ai fini
del  referto  sul  costo  del  lavoro pubblico di cui al titolo V del
d.lgs.  30  marzo 2001, n. 165. Il mancato invio della documentazione
di cui alla lettera a) del comma 204 da parte degli enti comporta, in
ogni caso, il divieto di assunzione a qualsiasi titolo».
    Molte  sono  le  censure che si possono sollevare con riferimento
alle disposizioni contenute nell'art. 30 del decreto-legge impugnato,
che si sono appena riportate.
    In  tutta  evidenza,  siamo di fronte a norme contenenti precetti
puntuali  e specifici, autoapplicative, che non lasciano alla regione
margini  di  disposizione  in  via  autonoma,  nonostante  la materia
rientri nell'ambito del «coordinamento della finanza pubblica» di cui
all'art. 117,  comma  terzo,  Cost., in cui allo Stato spetta solo il
potere  di  dettare i principi fondamentali e non l'intera disciplina
della materia.
    Del  resto,  codesto  ecc.mo Collegio, con la sentenza n. 390 del
2004,  ha  gia'  dichiarato  costituzionalmente  illegittime analoghe
norme statali contenute nella legge finanziaria 2003.
    Senza  voler  annoiare il Collegio, che certamente ben conosce la
sua  giurisprudenza, si ricordera' che nella sentenza ora citata sono
state  accolte  le censure mosse alle disposizioni di cui al comma 11
dell'art. 34  della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria
2003),   con  le  quali  si  stabiliva  che  le  assunzioni  a  tempo
indeterminato  delle  regioni  e  degli  enti locali, «fatto salvo il
ricorso   alle  procedure  di  mobilita',  devono,  comunque,  essere
contenute,  fatta  eccezione  per  il  personale  infermieristico del
Servizio  sanitario  nazionale, entro percentuali non superiori al 50
per  cento  delle  cessazioni  dal  servizio  verificatesi  nel corso
dell'anno 2002».
    Nella  pronuncia n. 390 del 2004, prima ricordata, codesto ecc.mo
Collegio  ha osservato che la norma della legge finanziaria 2003 «non
si  limita  a  fissare  un  principio  di coordinamento della finanza
pubblica, ma pone un precetto specifico e puntuale sull'entita' della
copertura  delle  vacanze  verificatesi  nel 2002, imponendo che tale
copertura  non  sia  superiore al 50 per cento: precetto che, proprio
perche'  specifico e puntuale e per il suo oggetto, si risolve in una
indebita   invasione,   da   parte  della  legge  statale,  dell'area
(organizzazione  della  propria  struttura  amministrativa) riservata
alle  autonomie  regionali  e  degli enti locali, alle quali la legge
statale  puo'  prescrivere  criteri  (...)  ed obiettivi (ad esempio,
contenimento  della  spesa pubblica) ma non imporre nel dettaglio gli
strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi».
    Anche   la   norma   impugnata  presenta  analoghi  caratteri  di
illegittimita'  costituzionale,  prevedendo  divieti di assunzioni di
personale quale conseguenza del mancato conseguimento degli obiettivi
di  risparmio  di spesa, che violano l'autonomia regionale in materia
di  organizzazione  degli uffici, unitamente alla autonomia di spesa,
di cui agli artt. 117, 118 e 119 Cost.
    11.  -  E'  costituzionalmente  illegittimo - in quanto introduce
norme che incidono sull'autonomia legislativa e finanziaria regionale
-  anche  l'art. 34,  comma  1  del  decreto-legge impugnato, recante
«Criteri  per  i  trattamenti  accessori  massimi e pubblicita' degli
incarichi di consulenza».
    La   disposizione   ora  citata  aggiunge  un  ulteriore  periodo
all'art. 24,  comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Quest'ultimo
articolo  dispone  che  con  contratto individuale venga stabilito il
trattamento  economico  fondamentale  per  gli  incarichi  di  uffici
dirigenziali  di livello generale, assumendo come parametri di base i
valori  economici massimi contemplati dai contratti collettivi per le
aree dirigenziali, e vengono determinati gli istituti del trattamento
economico   accessorio,   collegato  al  livello  di  responsabilita'
attribuito  con  l'incarico  di  funzione  ed ai risultati conseguiti
nell'attivita' amministrativa e di gestione, ed i relativi importi.
    Il  periodo  aggiunto  dalla norma qui censurata prevede che «con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il
ministro  dell'economia  e delle finanze sono stabiliti i criteri per
l'individuazione  dei trattamenti accessori massimi, secondo principi
di contenimento della spesa e di uniformita' e perequazione.
    Come  si  puo' comprendere dalla semplice lettura del testo della
disposizione  ora richiamata, anche in questo caso siamo di fronte ad
una  norma  statale  in  materia  di  finanza  pubblica dal contenuto
specifico, dettagliato e autoapplicativo.
    Se  pure  legittimamente  finalizzata al contenimento della spesa
pubblica,  la  previsione  in  oggetto  non rispetta il dettato degli
artt. 117,  comma  3  e  119,  perche'  non  costituisce un principio
fondamentale  di  coordinamento della finanza pubblica e non consente
al  legislatore  regionale  di  porre  in  essere alcuna normativa di
dettaglio  della  materia  non  solo  in  via legislativa, ma nemmeno
attraverso una normazione secondaria di mera esecuzione.
    Infatti,  precedendo  una disciplina uniforme posta in essere con
decreto  del  Presidente del Consiglio dei ministri si impedisce alle
regioni  di  stabilire  un  diverso  regime economico dei trattamenti
accessori massimi per gli incarichi di uffici dirigenziali di livello
generale, in relazione alle concrete realta' regionali.
    Da  quanto  si  e' esposto nel presente ricorso ritiene la difesa
della  regione  del  Veneto  che  risulti  con  chiarezza  il mancato
rispetto  del  dettato  costituzionale da parte di tutte le norme del
decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, impugnate.